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Channel: Il Soggiorno di casa Spari – Spari d'inchiostro
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Rassegnati (17062013) – Speciale “Leggere fumetti è sexy”


Il serpente all’ombra della madonnina

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LW

È uscito Long Wei, un albo pubblicato in uno dei formati più tradizionali del fumetto italiano, quello di Tex, Zagor e Dylan Dog. Dentro questa forma standard, brucia un tumulto di vera opposizione verso quei modi del racconto. Invece di raccontare le storie, tipicamente ambientate in America, di un eroe avventuroso, Long Wei si concentra su un cinese, esperto di kung fu, emigrato a Milano.

Lo confesso. Aspettavo con ansia l’albo perché, nel fascicoletto di presentazione, distribuito durante la scorsa Lucca Comics, avevo visto uno skyline della mia città che mi aveva messo di ottimo umore.

Purtroppo, in questo primo numero, Milano non c’è: è solo uno skyline, lo sfondo su cui ambientare una storia di genere, aderendo pienamente a un codice narrativo.

A me i film di arti marziali piacciono tantissimo. (Confesso, senza vergogna di vederne anche in lingue che non capisco e, spesso, senza i sottotitoli.) Hanno storie lineari, sono privi di analisi della psicologia dei personaggi, parlano sempre di vendette e rivalse e, soprattutto, esibiscono coreografie dei combattimenti meravigliose. Funzionano perché ti ci pianti davanti, senza nessuna distrazione, e ti concentri solo su quelle danze perfette. Non sono un esperto. Ho gusti semplici: amo Bruce Lee, Jackie Chan, Sammo Hung, Donnie Yen, Jet Lee, … e, anche, Ben Urquidez, Tony Jaa, Iko Uwais, Jeeja Yanin, Scott Adkins,…

A me piace quella roba. Sul serio. Ma sullo schermo, mentre sono fermo immobile con il culo saldamente ancorato al divano. Vedere Long Wei che tira un bellissimo calcio circolare volante, abbatte tre avversari e cade in piedi pronto per battersi con gli altri cattivi… Ecco. Vedere quel personaggio su una pagina a fumetti mi lascia addosso la sensazione di essermi perso qualcosa. Ma che cosa?

SC

Mentre cerco di mettere a fuoco questi pensieri, mi vengono in mente altri fumetti. Perché la storia dell’emigrato cinese in una città occidentale che cerca rivalsa a colpi di kung fu mica è nuovissima.

Paul Gulacy, disegnatore bravissimo indebitato fino al polso con Jim Steranko, ha disegnato tantissimo Shang Chi, Maestro del Kung Fu. Erano gli anni 70 e le sceneggiature erano, se non ricordo male, di Doug Moench. Quegli scontri erano infinitamente più emozionanti di quanto lo fossero quelli del David Carradine del telefilm Kung Fu.

Michael Golden, altro disegnatore bravissimo ma, in questo caso, pure molto lento, ha disegnato, negli anni Ottanta, il primo ciclo di storie di The ‘Nam e quelle pagine facevano bene al cuore. A un certo punto, ha preso un film di Jackie Chan (o un videogioco tratto da quel film, mai capito bene) e ha tentato di fare una serie a fumetti. Non credo ne abbia mai fatte più di 60 pagine (tante ne ho viste io, in vecchi comic book, credo editi da Topps, comprati in un negozio milanese che si chiamava Avalon). Il fumetto si chiamava Spartan X, il film Il mistero del conte Lobos e quelle pagine erano piene d’azione assurda (ricordo una sequenza in cui Jackie correva sui grattacieli appeso a un elicottero) e stavano benissimo sulla pagina.

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Perché quelle cose mi piacevano e Long Wei no? Cosa è successo?

Le qualità filmiche del cinema cinese hanno superato le possibilità di rappresentazione del fumetto? Non ho più 10/15/20 anni? Long Wei è una robetta cui riservo un’occhiata in più solo perché è ambientata a Milano? Boh! Magari nei prossimi numeri lo capisco meglio.


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Rassegnati (21062013)

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Leggere fumetti è sexy

Leggere fumetti è sexy

Parole

  • Otto regole per la scrittura di Neil Gaiman. Sono cazzonissime e inapplicabili. Quindi vale la pena leggerle. QUI.
  • Boing Boing, qui, mi segnala “Gather“, un giornale di cibo.
  • Neuvieme art presenta uno speciale su Alberto Breccia, el viejo. QUI.

Figure

  • Vero che leggi “Aspirina”? QUI.
  • Un po’ di Tall Tales di Al Jaffee. QUI.
  • Sul tumblr di snowce, ho trovato questa immagine di Vladim Skorik. QUI
  • Un Perec di Bacilieri. QUI.
  • A settembre esce CO-MIX il nuovo libro di e su Art Spiegelman. Da quello che posso vedere, guardando le immagini a corredo di questo post di Chris Oliveros, sarà una raccolta organica dei materiali di preparazione dei lavori di Spieg, nella quale confluiranno anche i materiali di lavorazione di Wild Party. Il libro esiste già in francese. Anzi, l’amore di Spiegelman per la Francia è così ricambiato che in francese c’è anche un’edizione bellissima di The Wild Party. Si chiama La Nuit d’Enfer.
  • Una galleria di copertine di Chas Addams. QUI. Lo so, le hai già viste un milione di volte. Ma quanto sono belle!
  • Ti ho sicuramente già detto del mio problema con le secrezioni umane. Quando ho visto questa immagine, ho avuto l’usuale moto di disgusto. Subito dopo mi sono venute in mente le copertine della prima edizione di The Playboy di Chester Brown che ho letto, quella spagnola. Mentre le cercavo (con google, perché è più facile che aprire scatoloni), ho trovato anche una copertina di Charles Burns. Eccole.
Playboy Chester Brown 01 Playboy Chester Brown 02 Playboy Charles Burns

Fatti

  • Da ieri (e fino a domenica) dovresti essere a Roma, al Crack festival. Quest’anno non ci sono potuto andare, ma era diventato il mio festival preferito.

affiche_2013

  • Sempre da ieri (e fino al 15 settembre) a Palazzo Reale di Milano c’è questa mostra di Guido Crepax a 10 anni dalla morte. Forse ho trovato dove trascorrere le vacanze.

Crepax

Carte

  • Si può acquistare un sacco di Moebius da qualche giorno. Tre volumi per tre editori distinti. Panini ha pubblicato il decimo e ultimo volume della collana “absolute moebius”. Si chiama Cronache metalliche e raccoglie delizie varie. Magic Press è uscita con una nuova edizione, in formato 21×27, degli Occhi del gatto (la cui storia è attribuita a Jodorowsky), stampata su carta gialla. Se non lo conosci, cercalo e tieniti pronto a un bellissimo picture book per adulti. Infine il comicon ha pubblicato il secondo volume di Inside Moebius, la cui prima uscita mi era parsa una straordinaria analisi del proprio mestiere.
  • Mi piace l’idea (e chi la porta a spasso) che “la bellezza dovrebbe essere gratis”. Alla gratuità non ci siamo ancora arrivati, ma al costo contenutissimo, in molti casi, sì. BUR ha portato in libreria, Una sconosciuta moralità: quando Verlaine saprò a Rimbaud di Giuseppe Marcenaro. Se lo compri su amazon, con le sue 300 e rotte pagine, costa 9 euro. Se lo prendi in libreria, può arrivare al massimo a dodici.
  • Altri tre volumi di Calvin & Hobbes di Bill Watterson nell’edizione integrale. La casa editrice è Franco Panini. Te lo dico così hai un nome e un cognome da maledire tutte le volte che vedi le cazzate di allestimento di quei libri.
  • Non l’ho ancora letto, ma è già là che mi scruta guardingo dalla mensola. A gennaio è uscito “Il Vittorioso. Storia di un settimanale illustrato per ragazzi 1937-1966″ di Ernesto Preziosi, per il Mulino.

Umori

Perché, ogni tanto, mi serve ricordarmi che c’è una ragione se questo blog si chiama “spari d’inchiostro”. Ed è ottima.


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Un fumetto per l’estate: Fashion Beast

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FashionBeast3HauteCouture

 

Una storia semplicissima. Una di quelle che, quando le riassumi in una frasetta – un claim, una tagline –, ti ritrovi con il fiato mozzato. Una storia potentissima, che parla di cose effimere e inessenziali: di moda, di stilisti, di mannequin, di associazioni che protestano contro la mercificazione dei corpi, di lavori sottopagati, di vite di merda, di oppressione, di sessualità inespresse, di inverno nucleare imminente, di malessere tatcheriano, di decadenza dell’umanità, di corpi reclusi, di obbedienze cieche, di incapacità di ridimensionare l’importanza dei potenti…

Una storia che ha anche una morale. Semplice e vera. Una morale che ci tocca quotidianamente e scarnifica la nostra percezione del reale: “Nelle immagini c’è il potere!”.

Quella storia è stata pensata per il cinema, tra il 1985 e il 1986, dal manager dei Sex Pistols, Malcolm Robert Andrew McLaren, e da Alan Moore, che in quell’anno stava facendo la rivoluzione con Watchmen. Moore ne ha scritto addirittura una sceneggiatura. Due tipi bravi hanno preso quello scritto e lo hanno trasformato in fumetto. Ora, non ho letto la sceneggiatura di Moore (tu, volendo, puoi QUI), ma so che scrivere per il cinema e scrivere per il fumetto sono due lavori diversissimi, i cui punti di contatto vengono enfatizzati solo da fumettisti frustrati che vorrebbero scrivere per la televisione. Il fatto che i nomi di Antony Johnson (che ha adattato lo script di Moore in sceneggiatura per un fumetto) e Facundo Percio (che ha disegnato quelle pagine) siano scritti in piccolopiccolo sulla copertina mi dà un po’ fastidio. Ma il fumetto è bello lo stesso.

Sta uscendo, per Panini comics, in fascioletti da fumetteria (una cinquantina di pagg, dorso quadro in brossura, €3.30), con periodicità bimestrale. È appena uscito il terzo e, in tutto, saranno cinque, per proporre la miniserie statunitense – pubblicata da Avatar – di 10 numeri.

Non sono il più grande fan di Alan Moore. In passato, da qualche parte tra gli anni Ottanta e i primi Novanta del secolo scorso, mi ha emozionato. Da due decenni mi interessa molto, ma mi scatena la stessa ridda di emozioni del tabulato dei dati di un censimento metropolitano (uno di quelli ben fatti, sia chiaro).

Con “Fashion Beast” è diverso. Mi scopro ad aspettare il nuovo numero con impazienza. E non è tutto. Stamattina, mentre chiudevo il terzo albo, ero commosso e incazzato.


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Un fumetto (da evitare) per l’estate: RASL

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Qualche giorno fa, su twitter, Mark Millar chiedeva quali autori di fumetto mainstream statunitense fossero, oggi, capaci di esprimere una posizione autoriale autonoma. Autori unici di parole e immagini (o, come si usa dire in Italia, completi), intendeva. Diceva che, concentrandosi sulla fine degli anni 70 ce ne sarebbero venuti in mente decine senza neanche pensarci un attimo. Oggi, no.
Poi, si è reso conto che i suoi follower gli stavano rispondendo, che stavano facendo nomi in alcuni casi indifendibili, che il mondo non sarebbe finito domani, che alla prossima convention di fumetti avrebbe incontrato tutta questa gente… Insomma ha capitolato e l’ha buttata in caciara.

Pensando a quel gioco ho sentito prima il moto stizzito (e disgustosamente reazionario) di chi si appresta a dire che non esistono fumettisti che vogliono raccontare consapevolmente l’oggi a tutti – mainstream, appunto – appartenenti a una generazione successiva la mia. Questo perché raccontare il mondo con consapevolezza richiede di essere svegli. E quelli svegli, nati in un mondo in cui il fumetto non era un attrattore dell’immaginario, sono tutti andati a fare qualcosa che li rendesse consapevoli di essere vivi, di essere contemporanei di se stessi.
Mentre cercavo il modo più sintetico per esprimere questo concetto in 140 caratteri per non sembrare un idiota reazionario, mi sono reso conto che, per dire questa cosa e non sembrarlo, avrei avuto bisogno di un saggio di 400 pagine e, alla fine, il dubbio sarebbe rimasto lo stesso.
Allora mi sono concentrato sui fumettisti statunitensi della mia generazione capaci, per dirla con Millar, di esprimere “a unique vision”. Me ne sono venuti in mente un po’. Tutta gente che, nel tempo, è stata capace di stare dentro e fuori il mainstream. Tutta gente che guardo sempre con piacere: Paul Pope, Mike Mignola, Michael Allred, Darwyn Cooke, Erik Larsen, Matt Wagner, … In cima alla lista, tutte le volte che provavo a stilarla, mi risuonava in testa un nome. Quello di Jeff Smith.

A me Smith piace tanto. Sul serio. Sono convinto che il suo Bone sia un grande affresco disneyano e che il suo Capitan Marvel, Shazam! The Monster Society of Evil, sia il felicissimo recupero di un’idea giocosa di supereroe ormai spenta. Lo credo capace di straordinarie intuizioni grafiche e narrative (le due cose nel fumetto coincidono). Costruisce pagine bellissime, è capace di grande scansione ritmica, mi stupisce, mi appassiona… Ecco. A me Jeff Smith piace. Il problema sta tutto nel fatto che io non piaccio a lui.

Jeff Smith mi considera un idiota. Il suo fumetto più recente, RASL, è la storia di scienziati che, basando le proprie invenzioni sulle scoperte di Nikola Tesla, costruiscono il teletrasporto. Un’arma terribile e meravigliosa che dona loro la consapevolezza dell’esistenza di universi paralleli. Hai presente Storie universali? È il frammento di Star maker (1937) di Olaf Stepledon, riportato da Borges, Bioy Casares e Ocampo nella loro Antologia della letteratura fantastica. Fa così:

In un cosmo inconcepibilmente complesso ogni volta che una creatura si trovava di fronte a diverse opzioni non ne sceglieva una, ma tutte, creando in questo modo molte storie universali del cosmo. Poiché in quel mondo c’erano molte creature e ognuna di esse si trovava continuamente davanti a molte alternative, le combinazioni di quei processi erano innumerabili e ad ogni istante quell’universo si ramificava infinitamente in altri universi, e questi, a loro volta in altri.

Il punto di partenza è questo. Il pezzo di Stapledon mozza il fiato, Quella dei mondi possibili è una teoria che risale a Leibniz, riallacciandosi al punto di vista di dio (il narratore), e che ci ha regalato vera bellezza. Jeff Smith è bravo, è capace di una “unique vision”, tiene insieme il racconto… Poi, però, sa di non saper gestire la complessità. Non si fida delle proprie qualità di narratore e, definendo il suo mondo, ha paura che il lettore lo fraintenda. E, allora, dà la stura agli spiegoni. Ce ne sono decine in tutti i quindici capitoli di cui RASL si compone. Pagine di noia esasperante in cui fiumi di parole spiegano teorie inutili alla comprensione del fumetto (eppure, in fondo a ogni volume, c’è una bibliografia). Smith racconta come se sapesse che oggi, in classe, avevo solo intenzione di far casino: mi richiama ad alta voce, facendomi fare una brutta figura con tutti i miei compagni di classe, mi fa sedere nel posto accanto alla cattedra e ripete tutto quello che ha spiegato dall’inizio dell’anno scolastico, rendendo evidenti connessioni scontate e banalità accennate. Lo fa così tante volte che, a un certo punto, finiscono anche i trucchi intelligenti e deve iniziare a usare il repertorio più trito. Pensa a un’idea sciocca usata negli ultimi 400 anni per fare uno spiegone. Ecco. Smith la usa. L’eroe sviene e ricorda. L’eroe riassume gli eventi alla donna con cui ha appena fatto l’amore. L’eroe si confida col lettore in un flusso (didascalico) di pensieri. L’eroe si fa spiegare tutto dal cattivo che lo minaccia con la pistola…

RASL, negli USA, è uscito in quindici comic book e poi raccolto in quattro volumi. Attualmente è in corso di pubblicazione un’edizione in due libri. Tutte queste edizioni sono di Cartoon Books, la casa editrice dello stesso Smith. Il fatto che l’autore non abbia avuto un interlocutore editoriale ha prodotto un mostro. I quattro volumi contengono materiali di lavorazione ridondanti e Smith approfitta di quelle pagine supplementari per spiegarmi ulteriormente quanto ha già detto più volte nel fumetto. Io sbuffo.

(i primi due volumi sono stati tradotti in italiano da Bao)


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Un fumetto per l’estate: Opus 2

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Da qualche parte, nei giorni scorsi, ho detto qualcosa di sgradevole sul metafumetto. Il mio amico ipofrigio, mentre stavamo guardando insieme le pagine di Guido Crepax in Palazzo Reale, mi ha fatto notare che sono ossessionato dal fumetto che parla di fumetto. Non me ne ero accorto, ma se lo dice ipofrigio (che – quando non cerca di litigarsi con qualcuno nei commenti di un post – è un tipo attendibile), ci devo credere.

A fare eco a questa sua affermazione, arriva il secondo volume di Opus di Satoshi Kon, uscito per Planet manga pochi giorni fa (il primo volume è datato maggio). La divisione dedicata al fumetto giapponese di Panini sta pubblicando, da qualche mese, i lavori di Kon e qua e là ci sono anche delle sorprese.

Satoshi Kon è regista di film di animazione bellissimi, cui sono particolarmente affezionato. Il mio preferito è quel meraviglioso incontro tra Frank Capra e il miracolo della 34a strada che si chiama Tokyo Godfathers. Gli altri, molto belli pure loro, sono Perfect Blue, Millenium Actress, Paprika e la serie Paranoia Agent. Tutta roba ottima, che riesci a portare sul tuo schermo con pochissimi click. Non hai scuse.

Kon è morto il 24 agosto 2010. Aveva 46 anni. Sei giorni prima di morire, sul suo blog, ha postato la lista dei 100 film di cui si parlava più spesso nel suo studio. Continuo a leggere quell’elenco e a pensare che, da lì, si possa dedurre qualcosa sui film mai realizzati di Satoshi Kon. Quella lista è stata tradotta in inglese ed è QUI.

Satoshi Kon, prima di diventare il regista gigantesco di troppi pochi film, è stato in studio con Katsuhiro Otomo, il tipo di Akira: con lui ha scritto delle storie e, qualche volta ha disegnato. Prima di dedicarsi al cinema, faceva manga. Quando faceva fumetti, era un onesto narratore con tante ossessioni visive: tutta roba che è riuscito a mettere a fuoco nell’animazione, rivelando di essere un gigante. Compro tutto ciò che porta il suo nome in copertina, mosso da una grande devozione, pur sapendo che quei fumetti non mi stupiranno. Una sorta di benevola prevenzione.

Con Opus, Satoshi Kon mi ha fregato. Mi ha fatto attraversare un racconto cui ero abituato, senza scossoni e senza stupore. Tutta roba tranquilla. Poi, quando ormai mi ero rilassato e avevo abbassato la guardia, mi ha condotto in un luogo segreto. Il fumetto che parla di fumetto ha iniziato a parlare di un fumetto che parla di fumetto, annodandosi in un’eterna ghirlanda brillante di ricorsioni e corrispondenze.

Kon era un genio. E la volontà di lasciare traccia materiale dell’autore nelle pagine non finite dell’ultimo capitolo di Opus è vera grandezza. Non ci credo che quelle pagine sono così, perché l’autore è stato distratto dal mondo e ha preferito non finire quella storia priva di un editore. Guardo quelle tavole, incomplete con pochi sfondi e ancora da ripulire, e capisco che quello è l’unico modo in cui quella storia poteva chiudersi.


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Un fumetto per l’estate: Lastman

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Lastman

Guardando “Long Wei”, qualche tempo fa, mi chiedevo come fosse cambiata la mia percezione delle arti marziali nei fumetti. Per citare pagine di combattimento che mi erano piaciute molto, da contrapporre alla noia scatenatami da quel fumetto europeo, avevo scelto di parlare di due comic book statunitensi: Spartan X di Michael Golden e Shang Chi di Paul Gulacy. Per ragioni che non so qualificare, mi sono completamente dimenticato di guardare al Giappone. Eppure, tra i manga avrei dovuto citare almeno i combattimenti tra ronin e samurai di Lone Wolf & Cub di Kazuo Koike e Goseki Kojima, che è un fumetto che amo visceralmente. Eppure tra i fumetti giapponesi c’è Dragonball di Akira Toriyama che ho letto con ingenuità, sorpresa e divertimento.
Niente. Me li sono dimenticati.

A ricordarmi la mia pochezza mnemonica arriva in soccorso twitter. Qualcuno (purtroppo non ricordo chi) segnala l’uscita del ventesimo episodio di Lastman, una riscrittura di Dragonball. Avevo letto qualche pagina quando questo progetto di Balak, Bastien Vivès e Michaël Sanlaville ha iniziato a essere serializzato sulle pagine di delitoon. Poi ho comprato il primo volume (che raccoglie i primi 10 episodi) che avevo rimosso subito dopo averlo letto. Il problema con i prodotti esclusivamente divertenti è questo: li leggi, ti diverti e poi li rimuovi quasi indelebilmente. La mezz’ora di assoluto cazzeggio donatati giustifica l’investimento.

E’ la storia di un avventuriero, di un bambino che fa un kung fu facile da sconfiggere e di una madre passionale che vuole proteggere il figlio. E’ la storia di un torneo di kung fu non letale. Ci sono i calci, i pugni, le scorrettezze e le onde energetiche. C’è anche un intrigo che non viene ben chiarito e che resta là a fornire un ordito leggero su cui tessere una trama fatta di calcioni e spinte dello spirito.

Ci sono pagine divertenti e ben costruite, combattimenti divertiti, soluzioni interessanti… Ci sono un sacco di cazzotti e, quando il combattimento va in crescendo, a volte gli autori scelgono di guardare da un’altra parte (e a me questa loro scelta diverte tanto).

Una sorta di Dragonball con sesso in un medioevo fantastico.

L’ho letto sullo schermo del mio PC e mi sono divertito. Da QUI (purtroppo gli episodi dal 2 al 10 – cioè quelli contenuti nel primo volume – sono stati rimossi).

(Nel frattempo, è uscito il secondo numero di “Long Wei” e mi è parso contenesse pagine di combattimento migliori di quelle della prima uscita. Purtroppo Milano continua a latitare.)

(Se ho capito bene, Lastman di Balak, Bastien Vivès e Michael Sanlaville uscirà in italiano per Bao)


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Un fumetto per l’estate: Alla deriva

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Quando è uscito Scott Pilgrim di Bryan Lee O’Malley, non l’ho mica capito. Ho letto il primo volumetto e sfogliato gli altri. Quel nome mi aveva spiazzato: troppo Kurt Vonnegut jr. nella mia vita. Mi ero illuso che Scott fosse un fratello di Billy e che, nella peggiore delle ipotesi, dovesse confrontarsi con i trafalmadoriani in un racconto sghembo e instabile come quelli di Kilgore Trout. Quando ho iniziato a leggere questa storia di adolescenti tardivi dagli affetti instabili che si muovono sul piano di un videogioco da bar, ho pensato che non stesse parlando con me.

Poi è uscito il film. La prima nazionale era a Lucca, in occasione della mostra mercato, e avevo anche un invito. Per non offendere chi mi aveva chiesto di andarci, ho fatto finta di dimenticarmi. Sì, lo so: non è una buona strategia per non offendere le persone. Però è sempre meglio di dire “non ne sapevo niente”. I pochi amici che mi sono rimasti, ormai fanno finta di credermi e non mi insultano più. Non per queste dimenticanze, almeno.

Non so come, quel film è finito anche nell’hard disk appiccicato al televisore e, un paio d’anni fa, una domenica pomeriggio di ozio e febbriciattola, l’ho visto con mio figlio Davide. Avere un figlio di otto anni è un’ottima scusa per vedere i film più sciocchi senza dover spiegare niente a nessuno. Il solo problema è che quella condizione dura poco (se non ci pensi per tempo, al massimo un anno). Poi, o smetti di vedere film indifendibili o devi trovarti un’altra scusa. Scott Pilgrim vs. The World è un film scemissimo e, proprio per questo, divertente. Lo guardi, sghignazzi, smetti di pensare per un paio d’ore e poi lo dimentichi. Lo dimentichi così tanto che non ti viene neanche voglia di andare a ritrovare quei sei volumetti finiti nel frattempo chissà dove.

Poi a un certo punto esce un libro, un graphic novel, contenente una storia di Lee O’Malley precedente Scott Pilgrim. Un fumetto uscito negli Stati Uniti nel 2003. In Italia si chiama Alla deriva e lo pubblica Rizzoli Lizard nel medesimo formato dei sei volumetti (costa 12 euro). Lo vedo, lo prendo, mi ricordo quanto poco fossimo stati in grado di dialogare quell’autore e io sulle pagine di Scott Pilgrim e, siccome è estate anche per me, inizio a leggerlo. Un’ora dopo, con stupore, scopro di averlo finito.

Non è la mia tazza di tè. Non sono un fan dello shonen manga. Credo che i prodotti indirizzati esplicitamente agli adolescenti siano il male assoluto. Frequentano quel segmento commerciale autori cui riconosco grande abilità, ma, dopo poche pagine, la noia ha sempre la meglio su di me (e in più so che quello è il male assoluto).

Fortunatamente Alla deriva non si presenta come Shonen o Young Adults o con un’altra di queste etichette ignobili. È un libro e si fa leggere. Con semplicità e leggerezza. Davvero, un fumetto per l’estate. Una cosa divertente da sfogliare in spiaggia (o dove ti piace – e puoi – stare quando non fai niente), per sghignazzare o, magari, addirittura commuoversi, perché in quel momento la tua guardia di lettore navigato si è abbassata e i trucchi narrativi passano. Una roba semplice, senza troppe pretese, che vorrebbe avere una seconda vita su una bancarella o su una panchina per il bookcrossing. Un libretto cui, se sei abbastanza giovane e se hai ancora l’anima, ti puoi affezionare, perché sai che ti ricorderà il sapore di quelle estate. Ecco. Un fumetto realmente popolare. Una cosa che adesso un po’ mi manca.

Quel claim, “Il primo graphic novel dell’autore di Scott Pilgrim”, che fortunatamente non è finito sulla copertina del libro, è espressione della disfatta. Avevo un immaginario – i fumetti, i film, i videogiochi, i cartoni animati, … – e ora mi sono rimasti i graphic novel di graphic journalism, il docufiction, l’open world action-adventure video game, l’animazione 3D, … La precisione linguistica, volta a meglio segmentare commercialmente il pubblico, mi ha fatto perdere l’anima. E non la ritroverò certo negli occhi di un gatto.


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Un fumetto per l’estate: Per il cinquantenario di “Sunday”

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Tra gli autori giapponesi ce ne sono alcuni che stimo tantissimo ma che leggo molto poco. Faccio subito i due esempi più eclatanti: Mitsuru Adachi e Rumiko Takahashi.

Sono puntualissimi, hanno senso del racconto, riescono a sviluppare storie con grande professionalità, gestiscono i tempi della serialità con precisione infallibile… Tutta roba che, dopo tre episodi, mi annoia a morte.

Ho comprato il primo numero di una serie di Adachi, appena uscita in italiano, che si chiama Idol A e racconta le prodezze di una ragazza con due doti:  posa per servizi fotografici per giornali destinati a giovani maschi rattusi e gioca a baseball come dio. Il problema sta nel fatto che per giocare deve fingere di essere un maschio e alternarsi sul campo con un suo sosia che, prevedibilmente, è innamorato di lei (come del resto tutti i maschi che seguono la sua carriera di ragazzina in bikini).

Storia semplice e noiosetta che ha il pregio di decollare in pochissime pagine, perché Adachi non l’aveva progettata come serie ma come ciclo di tre episodi da inserire in una raccolta di fumetti brevi. Il mercato è una bestia famelica e il fumettista ha dovuto poi aggiungerci pagine perché la storia crescesse e soddisfacesse i ritmi di pubblicazione specificati in qualche contratto.

Questo fumetto (pubblicato da Star Comics) potremmo tranquillamente dimenticarlo senza sentire il benché minimo senso di colpa. Non fosse che, in fondo all’albo, c’è una storia breve: Per il cinquantenario di “Sunday”, storia autoconclusiva a due mani di Mitsuro Adachi+Rumiko Takahashi.

Intendiamoci. Quelle ventotto pagine non contengono uno di quei racconti brevi capaci di segnarti indelebilmente. È la normale commissione, richiesta da un settimanale di fumetti per ragazzi (“Weekly Shonen Sunday”, appunto) ai suoi due autori più noti, in occasione di una ricorrenza specialissima. I due autori coinvolti sono tra i maggiori professionisti del manga e fanno il loro mestiere benissimo. Si alternano nella realizzazione di pagine gelide che raccontano la loro vita fino al momento in cui hanno iniziato a collaborare con il giornale, evitando qualsiasi forma di dialogo. Ci sono, è vero, un sacco di menzioni vicendevoli, che si traducono in sistematici complimenti, ma i due autori non sono capaci di sequenzialità narrativa tale da rendere quelle poche pagine un racconto organico.

Non ci sarebbe alcun motivo per consigliarti questo albo (in verità pure costoso, sette euro per 200 pagine stampate malino su brutta carta), se non fosse che nel fumetto di Adachi e Takahashi compaiono frantumi di un Giappone a fumetti che il manga tradotto finora in italiano ha cercato di tenere nascosto. Adachi parla dei kashihon, le librerie che affittavano dei libri a fumetti poverissimi (detti akabon) ai giovani giapponesi negli anni del difficile dopoguerra nipponico; specifica che in quei locali prendeva libri pieni di gekiga, i fumetti realistici; e cita i suoi autori preferiti del tempo e, tra questi, spiccano i nomi di Shigeru Mizuki, Hiroshi Hirata e Yoshiharu Tsuge. Takahashi parla principalmente del proprio amore per Ryoichi Ikegami, ma trova modo per citare “Garo” e “Com”, due giornali che hanno fatto la rivoluzione.

In estate basta poco per entusiasmarmi.


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Un fumetto per l’estate: The United Front Years of “Garo” and “COM”

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- Pronto Vinz
- Ehi, Paolo! Come stai?
- Meravigliosamente. Dimmi di te e soprattutto dell’unica cosa che conta, il pancione.
- Tutto benissimo.
- Quando ci vediamo?
- Presto. Ti devo far vedere dei libri che mi sono fatto arrivare dal Giappone…

Ecco. Le mie chiacchierate telefoniche con Vincenzo iniziano sempre così. Poi, qualche volta, riusciamo addirittura a sembrare due bipedi senzienti. Ma mica sempre.
Lui è uno dei miei amici più fichi. Uno di quelli di cui ti vanti con gli altri. Per esempio, tu lo sai che il mio amico Vinz parla fluentemente in giapponese? Ah sì? E lo sai che lo fa con accento calabrese? Ti ho già detto anche questo? Uff…

Allora, solo per farti invidia, ti dico una cosa che non sai. Qualche tempo fa, mi ha regalato un’antologia in due volumi che racconta i primi anni di vita delle due riviste di fumetti più belle di tutto il Giappone: “Garo” e “Com”. Questo non lo sapevi, eh? Gne gne gne… Sono due libri bellissimi. Guarda anche tu.

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Poi, se senti il morso irrefrenabile del desiderio di possesso, sappi che volendo li puoi avere anche tu comprandoli da Amazon Giappone. Ti puoi fare aiutare da Google translate. Mica come me: io ho un amico fico che parla fluentemente in giapponese. Con accento calabrese. (ad libitum)


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Un fumetto per l’estate: Manga, the pre-history of japanese comics

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図像漫画_cover英語版

So che stai ancora scorrazzando per amazon.co.jp per comprare l’antologia di “Garo” e “COM” di cui ti dicevo un paio di giorni fa. Non essere frettoloso. C’è un sacco di altra roba che merita la tua attenzione.

Per esempio, qualche settimana fa, ho visto sui banchi di una libreria milanese un libro che non ho comprato solo per il prezzo esorbitante. Mi sono limitato a fotografare quella copertina e, una volta a casa, ho cercato il libro in rete. Costava più o meno la metà. Comunque una fucilata, ma decisamente meglio.

Premetto che a me i libri che raccontano “il fumetto prima del fumetto” un po’ annoiano. Ho un paio di amici, il fumettologico di là e Fabio Gadducci, che, con quelle robe, gongolano un sacco: gli voglio bene, ma sto bene anche senza quei discorsi. Questo libro invece mi piace molto e per motivi diversi.

Innanzi tutto, è un’antologia dei temi e dei modi della caricatura e del disegno umoristico giapponese, che mette in fila tutte le cose che sai e che hai visto e le affianca a cose che hai solo intuito o che non immaginavi neanche. E mi capita allora di scoprire che quel disegno di Shigeru Mizuki che amo tanto è un omaggio affettuoso a una stampa saldamente scolpita nell’immaginario nipponico, oppure che Suehiro Maruo, Kazuichi Hanawa o Hideshi Hino iscrivono consapevolmente il loro lavoro in una tradizione secolare che conoscono benissimo.

In secondo luogo è un oggetto molto bello. Stampato (non benissimo) su una carta porosa, quel libro fa un odore così buono che risulta difficile posarlo. E’ tagliato e incollato su una copertina leggera e avvolto in una sovraccoperta ruvida. Ma la composizione di quei materiali poveri dà una sensazione di oggetto prezioso. Un vero e proprio trompe l’oeil del lusso.

Poi è bilingue – giapponese e inglese – e mentre lo leggi, con difficoltà, perché le parole in caratteri intelligibili sono state stampate in un rosso chiaro sugli sfondi colorati più improbabili, hai continuamente la sensazione che la traduzione sia stata fatta un po’ a naso. (C’è una timeline che vorrei tanto capire… peccato che non sia stata tradotta.)

Infine, non c’è un vero e proprio curatore del libro (o, se c’è, il suo nome è scritto solo in giapponese). Però c’è un prefatore. Uno studioso che si chiama Isao Shimizu e che dimostra che anche in Giappone può succedere che a fare storia del fumetto ci possa finire uno senza meriti che scrive robe che per saperle bastava guardare wikipedia. Però quel tipo lì, per scriverle, usa una retorica zuppa di imprecisione e robusto sciovinismo.

Hmmm… Ci ho ripensato. Forse anche questo libro sul “fumetto prima del fumetto” non mi è piaciuto troppo.

Infine


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Con classe

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Bode

Il 18 luglio del 1975, Vaughn Bodé fa, per l’ultima volta, il suo rito mistico. Fino a quel momento è stato uno dei fumettisti più importanti che il movimento underground ci abbia dato. Ha disegnato lucertole, rospi, maghi nascosti nel proprio cappello, nazisti e donne bellissime. Quelle femmine di carta sono un concentrato di carne, di labbra e di seni. Le sue pagine, in Italia, sono comparse a più riprese su “Linus”. Un paio di volte durante gli anni di Giovanni Gandini e con maggior continuità durante la direzione di Oreste del Buono. La banda di “Linus” aveva accolto Bodé dopo averlo conosciuto a Lucca, dove, nel 1969, era andato a ritirare lo Yellow Kid. Erano anni in cui quello era il premo più fico del mondo, mica bubbole.
Bodé racconta una sessualità confusa e divertita. Lo fa con il corpo, con il travestitismo, con l’aspetto da rockstar e, soprattutto, con una montagna di pagine bellissime. A un certo punto, Berni Wrightson (che non è certo un tipo impressionabile) fa una breve serie di storie con lui. Da quell’esperienza, porta a casa un ricordo che, anni dopo, condividerà in un’intervista: “la cosa migliore di quei fumetti era lo spettacolo di Bodé”. Una sessualità impressa sulla pagina tanto incontenibile da richiedere periodiche esperienze mistiche.
Il 18 luglio del 1975, l’ultima. Vaughn indossa il camice, saluta il figlio Mark per l’ultima volta e va a fare la sua cosa: lo troveranno con un cappio al collo. La masturbazione in asfissia non è sempre una bella trovata.

ReneGoscinny

Il 5 novembre del 1977, René Goscinny sta pedalando su una cyclette. Nessuna volontà di mantenersi in forma. E’ un periodaccio e lui si è affezionato alla propria vita. Non sta tanto bene, prende un sacco di farmaci e, lo sai anche tu, compiuti i cinquant’anni bisogna fare controlli periodici. E’ un grande sceneggiatore: ha fatto ridere generazioni di lettori con Iznogoud, Asterix, Lucky Luke e Petit Nicolas. Ha diretto uno dei mensili di riferimento del fumetto europeo, “Pilote”.
E’ stufo di pillole che scandiscono la sua giornata a orari inflessibili. Decide di cambiare cardiologo. Quello nuovo è uno sperimentatore: il 5 novembre del 1977, gli dice di gettare i farmaci e di salire sulla cyclette per un elettrocardiogramma sotto sforzo.
Goscinny avrebbe potuto prevedere che sarebbe andata a finire male: uno con la sua vis comica, quella leggerezza, a Iznogoud, non l’avrebbe certo lasciata passare liscia.

Pompeo

Il 16 giugno del 1988, finisce la corsa di Andrea Pazienza. Ci aveva illuso che il suo schizzare lo sballo si fosse interrotto con quella magnifica doppia pagina in chiusura di Pompeo. Lì, il meridionale più alto del mondo aveva dichiarato, in modo chiaro, come la sua strada e quella del suo personaggio dovessero infine dividersi: io a vivere e lui a morire, sembrava dirci, in una sorta di Apologia al contrario. Invece, l’eroina per Pazienza non era uno strumento e neanche un’esperienza: semplicemente era metodo. L’autodistruzione richiede disciplina. Il 16 giugno del 1988, per l’ultima volta, 10 mg di liquido grumoso in un cilindro di vetro vengono stantuffati attraverso un ago ipodermico nell’avambraccio di uno che a disegnare era veramente bravo.

CharlesSchulz

Il 12 febbraio del 2000, muore Charles M. Schulz. Aveva realizzato la sua striscia per cinquant’anni. La leggenda vuole che tutti i segni presenti su tutte le strisce (e le tavole domenicali) di Peanuts – squadrature e lettering compresi – siano dovuti a un’unica mano. Quella di Schulz. Ogni personaggio di quel mondo, bidimensionale e privo di adulti, racconta un frantume della personalità di Schulz. Per tutta la vita negherà con forza di aver attinto alla personalità di amici e conoscenti – o, peggio ancora, a esperienze di vita coniugale – per alimentare le situazioni presenti nella striscia. A Charly Brown ha dato la sua timidezza e la sua determinazione, a Violet “la parte peggiore di sé”, a Lucy il sarcasmo, a Linus la dignità e “i piccoli pensieri strani”, a Shroeder il perfezionismo e la devozione alla sua arte, a Snoopy la consapevolezza di essere colmo di talento ma incompreso… A un certo punto, a un intervistatore, dirà: “Mi sento a casa con tutti i miei personaggi. Con loro posso essere sarcastico quanto mi pare. E tutto questo mi consente una piena sublimazione di tutti i miei desideri, proprio quello che mi serve a detta di quegli psichiatri oggi tanto popolari.” L’ultima tavola domenicale di Peanuts esce il 13 febbraio del 2000, il giorno dopo la morte dell’autore.


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Una buona notizia

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Te lo ricordi Ray Banana? No? Sei giustificato. In Italia lo si è visto pochino. Se non ricordo male solo in rivista e in un volume, Avventura a Parigi, uscito per Alessandro alla fine degli anni 80 del secolo scorso. Anche il suo autore, in Italia, non è particolarmente ben voluto. Oltre al Ray Banana, ricordo solo Playback (tratto da Raymond Chandler) di cui era solo sceneggiatore: disegnato da Francois Ayroles, è uscito nel 2007 per BD.

Comunque, Ray Banana è tornato. Ted Benoit ne sta pubblicando una serie di avventure sul suo blog, che ha un nome bellissimo: La philosophie dans la piscine (Les pensées improbables de Ray Banana) – Pour certains c’est dans le boudoir, pour d’autres dans la piscine.

Così, tanto per gradire, metto qua sotto le prime pagine. Tu continua a leggere tutte le storie sul blog di Benoit: QUI.

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Ranpo Panorama

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Ci sono libri che non riesco a posare. Come questo Ranpo Panorama, che ho appena acquistato in Francia. E’ edito da Le Lézard Noir ed è una raccolta di illustrazioni (ma c’è anche un breve fumetto) di Suehiro Maruo, stampata benissimo, su carta perfetta. Ho amato La strana storia dell’isola Panorama (edito da Coconino) e, quando ho visto sullo scaffale questo libro, mi è parso un’appendice a quel fumetto. Sbagliavo. Si tratta di una raccolta di illustrazioni, ispirate (ma non sempre) ai romanzi di Edogawa Ranpo. Di questo scrittore giapponese, che si firma con la trascrizione ideografica del nome completo di Poe, non so nulla. La scelta di quello pseudonimo mi pare pacchianissima, ma – sicuramente – sto usando parametri europei che mi impediscono di capire.
Il libro è molto bello. Peccato ci siano degli errori editoriali marchiani che – snob che sono – mi impediscono di goderne appieno. Per esempio non sopporto che un libro di illustrazioni giapponesi, pubblicato mantenendo il senso di lettura originale, abbia la copertina da normalissimo volume destrogiro. E, ancora, mi dà noia che quell’illustrazione, stampata su un foglio distinto, sia incollata sulla copertina cartonata sovrapponendosi per oltre un centimetro alla costa in tela: ci passo sopra il dito e impreco.
Sicuramente esagero, ma credo che, se decidi di fare un libro costoso, invendibile, dedicato a un illustratore gigantesco e rendendo omaggio allo scrittore che ha dato il nome alla tua casa editrice, hai l’obbligo di costruire un prodotto perfetto.

Ciò detto: adesso compro La belva nell’ombra, romanzo di Ranpo, edito da Marsilio. E, qui di seguito, metto una galleria di immagini disturbanti di Maruo. Siccome, però, sono un mollaccione, quelle disturbanti sul serio (cioè, quelle che io non riesco a guardare) non ce le metto. (ma se vuoi, google image funziona benissimo e, ci sono siti con le scansioni di tutti i fumetti di Maruo).

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Omaggio a Quino


Les Ramoneurs di Fred e Terry Gilliam

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Ramoneurs

Tra il 1960 e il 1965, Harvey Kurtzman sta dirigendo il suo ultimo giornale, “Help”. E’ un giornale fatto pagando pochissimo tutti i collaboratori e usando un sacco di genio e fantasia. Per intenderci, su quelle pagine vengono pubblicati i primi episodi di Fritz il gatto di Robert Crumb, pagati 5 dollari a tavola. Sempre per essere chiari, nello stesso periodo, Kurtzman sta vendendo i diritti di pubblicazione delle pagine di Little Orphan Annie – pubblicate dal “Playboy” di Hugh Hefner – alla cifra inverosimile di quattromila dollari l’una.
Kurtzman è in redazione e chissà cosa sta facendo. Magari ritaglia fotografie per fare uno dei collages cretini che fanno tanto incazzare James Warren; o forse sta sceneggiando una storia. Chissà? Fatto sta che suonano alla porta. Kurtzman si alza e va ad aprire, ché con quei soldi mica se la poteva permettere una segretaria di redazione.

- E tu, ragazzo, chi sei?
- Mi chiamo Terry Gilliam…
- E che ci fai qui?
- Sono venuto a lavorare con te.
- Ok. Torna a casa.
- Hmmm… Non posso. Vengo da Minneapolis e sono arrivato a New York per lavorare qui.
- Eh?
- Anzi. Ho già un’idea: facciamo i fotoromanzi.
- …

Ok. Forse il dialogo non è stato proprio questo, ma, a detta di Gilliam, è più o meno quello che è successo. Il futuro regista era un appassionato di “Mad” e, quando ha scoperto che Harvey Kurtzman stava facendo un altro giornale lo ha raggiunto in redazione. Da quelle parti, per intenderci, Gilliam conoscerà un sacco di gente, compreso John Cleese con cui entrerà nei Monty Python. Ma questa è un’altra storia.

René Goscinny, sceneggiatore di Asterix e direttore di “Pilote”, è un appassionato di Kurtzman. Nel 1949 ha condiviso uno studio con lui. Qualcuno (Kurtzman) dice che ripulisse le sue pagine dalle tracce di matita e qualcun altro (i biografi di Goscinny) che gli pagasse un affitto. I due rimarranno in buoni rapporti e la cosa farà più bene a Goscinny che a Kurtzman: lo sceneggiatore francese farà propria la lezione di “Mad” diventando un gigante della comicità a fumetti; il fumettista statunitense rosicherà vedendo le pigne di libri di Asterix nelle librerie di Parigi (l’aneddoto è raccontato dallo stesso Kurtzman in My life as a cartoonist).
Nel 1967, Goscinny dirige “Pilote” (lo co-dirige con Jean-Michel Charlier, in realtà) e ha a disposizione alcuni dei fumettisti più bravi del mondo. Fa un giornale straordinario e si permette giochi arditi. Per esempio, quando intercetta un giovane animatore e fumettista statunitense che si è appena trasferito in Europa. E’, chiaramente, Terry Gilliam che è andato in Inghilterra per evitare il servizio militare: aveva annunciato la propria partenza sull’ultimo numero di “Help”, dicendo che era stato distaccato alla sezione europea del giornale. Sicuramente Gosciny e Gilliam si incontrano per intercessione di Kurtzman. Gilliam è in cerca di lavoro. Di lì a poco animerà spezzoni di una serie televisiva inglese, Do not adjust your set!, in cui compaiono anche Eric Idle, Terry Jones e Michael Palin, tutta gente che, di lì a poco, fonderà, i Monty Python (già… ma questa è un’altra storia).
Goscinny commissiona a Fred (al grandissimo Fred) una sceneggiatura per il ventisettenne inglese. Il risultato è Les Ramoneurs. L’unica pagina che ho trovato (che è la stessa fotografata da Fred Schwamberger QUI) è quella pubblicata su “Pilote” n.426 e riprodotta in Un magneto dans l’asiette de FRED: Entretiens avec l’auteur de Philemon, appena uscito per Dargaud.

Questo è solo uno degli ottimi motivi per comprare quel libro.

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Quante volte si può ricominciare una vita?

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Per prima cosa, La proprietà di Rutu Modan, pubblicato da Rizzoli Lizard, è uno dei fumetti più belli che io abbia letto quest’anno.

Riassumo le informazioni che ho raccolto su questa fumettista.

È israeliana, è una donna simpatica, si ricorda le facce (la seconda volta che mi ha incrociato, a mesi di distanza dalla prima, mi ha riconosciuto e salutato: io, chiaramente, no e ho iniziato a parlare in italiano), ha partecipato al collettivo “actus” (e alcuni fumetti di quel periodo sono raccolti nel volume Il passato è passato, Coconino). Ha fatto un fumetto lungo che ho molto amato e che in italiano si chiama Unknown/Sconosciuto (ancora Coconino). È la seconda figlia di due medici, sua sorella maggiore è a sua volta un medico, la minore è un’attrice televisiva molto nota in Israele. Durante l’infanzia ha conosciuto pochi fumetti: cita Tex e Tintin. Ha incontrato “Raw”, giornale diretto da Mouly e Spiegelman, mentre studiava alla Bezalel Academy of Art & Design di Gerusalemme e ha capito che voleva fare fumetto. Ha allora proposto una striscia a un quotidiano israeliano e, in assenza di concorrenza, è diventata la prima autrice di strisce nel Paese, un po’ influenzata da Jules Feiffer. Poco dopo ha incontrato “Mad” ed è diventata, con Yirmi Pinkus, direttrice dell’edizione israeliana del giornale.

Oltre ai tre libri (reperibili facilmente in italiano), in rete si trovano Mixed Emotions, un blog gestito per il “New York Times” da maggio a ottobre 2008, e The Murder of the Terminal Patient, un fumetto uscito a puntate su “The Funny Pages” sempre del “New York Times”.

Fino a qui le informazioni che si raccolgono sull’autrice guardando un po’ in giro e, soprattutto, leggendo le interviste rilasciate.

A questo punto, se fossi un vero recensore, ti parlerei d’amore, di memoria e di nuovi punti di inizio (“Quante volte si può ricominciare una vita?”). Perché quelli sono i temi della Proprietà. Purtroppo i limiti del corpicino che mi imprigiona mi costringono a spostare la mia (e, forse, anche la tua) attenzione altrove: ti parlerò di “linea chiara”. Hai presente?

Siamo a Bruxelles e Hergé è un polo di attrazione tale da richiamare a sé diversi autori in veste di collaboratori, assistenti o, più raramente, semplici vicini di scrivania nello studio. Accanto all’autore di Tintin, passano Edgar P. Jacobs, Bob De Moor, Jacques Martin, Roger Leloup e una cinquantina di altri professionisti che vivono i ritmi produttivi dello studio.

Influenzati dal padrone dello studio, sviluppano un approccio al fumetto che, decenni dopo, Joost Swarte ci insegnerà a chiamare Ligne-claire, “linea chiara”. Si tratta di un modo che, in superficie, mostra pulizia estrema del segno – netto, chiaro e privo di tratteggio – ma che tocca un po’ tutti gli elementi del racconto: i colori sono privi di sfumature, il lettering è scritto in stampatello minuscolo all’interno di balloon rettangolari, e le sceneggiature avanzano linearmente, con incedere semplice, ma, allo stesso tempo, evitando facilonerie (mica ci riuscivano tutti però: diciamocelo, Blake e Mortimer di Edgar P. Jacobs è un fumetto ridondante, noiosetto e sciocchino).

Sei anni prima della morte di Hergé, nel 1977 durante l’allestimento di una mostra in Olanda, Swarte enumera e definisce i caratteri della “linea chiara”. Così facendo, codifica un modello da riprodurre consapevolmente. Alla seconda ondata della Ligne-claire aderiscono oltre allo stesso Swarte, autori come Jean-Claude Floc’h (con la trilogia inglese, sceneggiata da François Riviére), Ted Benoit (quello di Ray Banana) e il grandissimo Yves Chaland.

Perché ti racconto questo?

La proprietà di Rutu Modan si inscrive perfettamente nella tradizione della “linea chiara”. Anzi, ho la sensazione che, nonostante Rutu parli raramente dei fumetti che ama e delle sue fonti di ispirazione, quel libro sia l’attualizzazione più consapevole di quel modo di fare fumetto. Oltre agli evidenti riferimenti stilistici – la pulizia del segno, l’assenza di tratteggi, i colori privi di sfumature, i balloon regolari (ellissoidi) e l’uso dello stampatello minuscolo (solo per evidenziare i discorsi in ebraico e in polacco) – ci sono continui richiami al ritmo del racconto di Hergé. Tintin, citato esplicitamente in una vignetta, non viene omaggiato solo (solo?) negli elementi grafici, ogni pagina è consapevole di quella lezione di racconto: la comicità, gli eventi in secondo piano che producono effetti diretti – spesso dolorosi – sui personaggi in azione, la scansione dei quadri…

Rutu Modan è la nuova “linea chiara”. Chissà cosa ne pensa Joost Swarte?

(Il sito di “Internazionale” ha pubblicato le prime 80 pagine del fumetto: le trovi QUI)


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Storie che ti faranno diventare Pazzo

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L’esperienza di Harvey Kurtzman al servizio di Stan Lee, alla Timely che, anni dopo, si chiamerà Marvel Comics, finisce malino. Hey Look!, la serie di pagine autoconclusive su cui il fumettista stava sperimentando e inventando, è arrivata al capolinea e Lee vorrebbe che il giovane fumettista facesse una serie simile a quella Blondie che piace tanto ai lettori dei quotidiani statunitensi. Chic Young, hai presente?

Frustrazione e rabbia, come sempre, per Kurtzman, ma anche una fresca famigliola da mantenere: infatti il nostro è convolato a nozze con Adele, la segretaria di Stan Lee. Tocca di lavorare.

Con la cartelletta sotto braccio, Harvey fa visita a tutti gli editori di comic book di New York, riuscendo a piazzare qua e là qualche storia.

Tra gli editori cui Kurtzman fa visita c’è anche Bill Gaines, insegnante di chimica mancato che ha da poco ereditato la casa editrice del padre Max. Si chiama EC Comics e quella E sta per Educational: l’editore è infatto specializzato in fumetto religioso e storico. Il neoeditore si appresta al lancio delle nuove linee di comic book, incentrate sul crimine e sull’orrore, che trasformeranno quella sigla: la E significherà presto Entertainment e addio ai temi religiosi.

Kurtzman è bravissimo. Gaines lo vede subito e lo arruola.

Alla EC il processo di produzione del fumetto costringe gli sceneggiatori a impostare graficamente le pagine. Le tavole bianche vengono inviate a un servizio editoriale che traccia i balloon e disegna il lettering col normografo. Poiché le pagine arriveranno sul tavolo del disegnatore con tutti gli elementi verbali al loro, lo sceneggiatore è costretto a suddividere la pagina in quadretti e a definire gli ingombri e la posizione di nuvolette e didascalie. Code comprese.

A Harvey il vincolo calza a pennello. Lo traduce nel proprio marchio di fabbrica: fino alla morte, sceneggerà con la matita sul foglio da disegno, costringendo i disegnatori alla massima fedeltà. Peccato che sia uno scrupoloso precisino e scrivere storie di guerra gli richiede di documentarsi un sacco. Sceneggia poco e, di conseguenza, guadagna poco. La dura legge del pane e del companatico.

Per risanare il suo reddito precario, Gaines gli propone di curare una nuova testata. Deve trattarsi di un lavoro che non costringa Kurtzman a ricerche e documentazione. Memori di “Hey look!”, Gaines e Kurtzman si accordano per un comic book umoristico che si dovrebbe chiamare “Mad mag”.

Alla fine dell’estate del 1952 esce “Mad”

Per i sessant’anni del giornale, DC Comics, attuale editore di “Mad”, ha dato ai suoi titoli più importanti copertine che ne omaggiassero la storia. Eccole.

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Ehsan

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Ehsan_Shafiq

Mi piacciono le arti marziali. Ma mi piacciono tanto. Per anni ho indossato una tuta bianca di cotone, mi sono allacciato una striscia di stoffa in vita e sono entrato in un dojo quasi tutti i giorni. Poi, all’improvviso e senza un reale motivo, ho smesso di farlo. Sono passato da 6/8 ore di calci e pugni ogni settimana a niente.

Oltre vent’anni dopo, ho ricominciato ad andare in palestra. Stessa palestra, stesso maestro, compagnucci di corso tutti nuovi e con un’età che oscilla tra la metà e un terzo della mia. Adesso – se ho tempo, se il fisico mi tiene e se mi ci vogliono – vado a far scricchiolare le giunture e tento di non farmi incrinare le costole (e mica ci riesco sempre). Dovrei andarci due o tre volte la settimana ma, se sono in stato di grazia, riesco a indossare il mio karategi anche cinque volte in un mese.

Praticare un’arte marziale negli anni di youtube significa che, se hai uno scarso controllo sulle tue ossessioni, puoi trascorrere molte notti a guardare video di maschi e femmine che si prendono a pedate. Dopo un po’, youtube impara a conoscerti e – tra un noioso video virale, una sparata di grillo, una raccolta di video amatoriali con persone che cascano dalla bici e quasi muoiono facendoti ridere – ti suggerisce cose interessanti. Come oggi, per esempio.

Ho trovato dei video di Ehsan Shafiq, un maestro di kung fu afgano. Se ho capito bene è uno dei due figli di Wahidullah Shakif, primo maestro di kung fu in Afghanistan (ma chissà se è vero? Nelle arti marziali c’è una corsa irrefrenabile alle primogeniture). Ehsan inizia a praticare da bambino e dopo un po’ si trasferisce a Londra. Partecipa a gare di combattimento nelle discipline più disparate senza trovarsi mai (almeno nei video che ho visto io) di fronte ad atleti significativi, e forse è proprio per questo che riesce a fare i suoi salti e a tirare i suoi calci. I pochi video che si trovano in rete (raccolti quasi tutti sotto un account youtube a suo nome) ce lo mostrano durante incontri di kung fu, karate, taekwondo e kick boxing. La pagina spagnola di wikipedia, l’unica che gli dedica una voce, dice che è stato cinque volte campione del Regno Unito e una volta campione europeo (ma, anche qui, chissà di quale federazione? Ché nelle arti marziali, che di loro tollererebbero poco l’agonismo, ci sono sempre un sacco di campioni nazionali, europei e addirittura mondiali).

In ogni caso, quando vedo la scelta di tempo con cui tira quel calcio circolare all’indietro – quello che nel karate si chiama ushiro mawashi geri e nel kung fu non so – mi emoziono. Sono una mente semplice e non riesco a rimanere freddo di fronte a un knock out.

Ehsan è morto d’infarto poco più di un anno fa, nel giugno del 2012. Aveva 37 anni.

Qui, nel 1996 a Islamabad, incontra un karateka e lo suona. Non è un granché e alla fine è un po’ a corto di fiato, ma provaci tu a roteare le gambe per 3 minuti.

Qui, nel 1998, durante la finale di un campionato pachistano di un’arte marziale che non ho riconosciuto.

Qui, nel 1999 a Nemat Mahal, fa a pedate con uno di taekwondo e gli infila per due volte di fila la stessa tecnica. La seconda volta lo lascia per terra.

E qui, un incontro di kick boxing nel 2007 a Londra.

E, infine, per chiudere in tristezza, qui nel 2010, un bel po’ appesantito, fa una dimostrazione di kung fu durante quella che sembrerebbe una comunione, ma in realtà è il raduno degli studenti afgani a Londra.


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Rassegnati (27092013)

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Leggere fumetti è sexy

Leggere fumetti è sexy

Parole

  • Mark Burnett a proposito delle password più usate:

4.7% of users have the password password;
8.5% have the passwords password or 123456;
9.8% have the passwords password, 123456 or 12345678;
14% have a password from the top 10 passwords
40% have a password from the top 100 passwords
79% have a password from the top 500 passwords
91% have a password from the top 1000 passwords

e QUI tutto il resto

  • Stephen King, 66 anni e 56 romanzi, parla con il Guardian in occasione dell’uscita del suo romanzo nuovo (Dr. Sleep, sequel di Shining che, in italiano, vorrei si chiamasse “Una splendida festa di sonno”). Dice cose su Twilight, Hunger Game e anche Cinquanta sfumature. Be’… Non ti resta che leggere. QUI.
  • Maria Popova recensisce Vagina di Naomi Wolf in un articolo che s’intitola “The Science of Stress, Orgasm and Creativity: How the Brain and the Vagina Conspire in Consciousness”. E’ QUI. Non l’ho letto proprio tutto, ma il fatto che inizi con questa citazione dal libro di Wolf mi ha rallegrato la giornata:

“To understand the vagina properly is to realize that it is not only coextensive with the female brain, but is also, essentially, part of the female soul.”

  • “Incoraggia i bambini a rompere i piatti per non asciugarli”. Dodici ottimi motivi per richiedere la censura di libri per ragazzi. QUI.
  • E poi la lista dei libri che, tra il 2012 e il 2013, hanno subito tentativi di censura. QUI.

Figure

  • Quarant’anni fa moriva Anna Magnani. Oggi di anni ne avrebbe 105.
    NPG x136345; Anna Magnani by Bob Collins
  • Carn di Jeff Le Bars
  • Terry Gilliam scorrazza per l’Europa in autostop (guarda la borsa; da QUI).

TGilliamInEurope

  • Akira contro Bart Simpson (da QUI)
AkiraPrima AkiraDopo
  • Dal blog di Paolo Bacilieri (QUI), Sfiorisci bel fiore di Enzo Jannacci.

SFIORISCI

Fatti

  • La distribuzione iniqua dei capitali è fatto risaputo. Io sono, però, una mente semplice. Se mi fanno un disegno capisco meglio. Guarda questo video. Si riferisce agli Stati Uniti. In Italia, la situazione è sicuramente diversissima: eroi, poeti, naviganti e santi continuano a coltivare il valore dell’equità sociale.

Carte

  • Mica lo so se finisce anche sul sito. Tu tienilo d’occhio. QUI. Comunque, con “Alfabeta 2″ n.32 (in edicola ora) c’è un inserto intitolato “AlfaTurk: Una rivolta trasversale”. Dentro quell’inserto c’è un racconto (credo inedito in italiano) di Copi. Sai chi è Copi, vero? La donna seduta, la giornata di una sognatrice, gli sdoppiamenti del maggio 68, La partecipazione al movimento panico di Topor/Arrabal/Jodorowsky, l’esordio su “Nouvel Observateur” (e, in Italia, su “Playmen” della Tattilo), le recite en travesti, il ballo delle checche, gli spinelli, casa Gandini, gli anni di “Linus”, l’AIDS, il malato quasi terminale che si porta in scena con allegria, … Se non ne sai niente, non perdere tempo qui. Fa’ una corsa in edicola, compra quel giornale, cerca quel racconto e godi.

Umori


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